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La Cannabis nell’Italia moderna: dalla riscoperta alla messa al bando

Secondo numerose testimonianze, fu durante la campagna di Napoleone in Egitto, nel 1798, che avvenne il primo contatto dell’epoca moderna tra la canapa indiana e l’Europa: in Egitto e nel resto dell’Africa questa pianta era conosciuta e utilizzata da secoli – sia a scopi rituali e religiosi che terapeutici, mentre in Europa, a parte qualche riferimento isolato in epoca Medievale (riguardante per lo più le farmacie dei monasteri), pare se ne fosse dimenticato l’uso dai tempi dei Greci e dei Romani.
Come riporta Giorgio Samorini nel suo libro “L’erba di Carlo Erba”, fu grazie al “doppio binario” dell’ambiente medico e di quello intellettuale (artistico e letterario) che la conoscenza e l’utilizzo della canapa indiana – e del suo derivato ad azione stupefacente, l’hashish – si diffuse nel XIX secolo nei diversi paesi europei (Francia e Inghilterra in primis, seguiti da Spagna, Portogallo, Olanda e Germania).

Dal punto di vista letterario, fu la Francia a fare da traino con i suoi “poeti maledetti”, che avevano dato vita al cosiddetto club des Haschischins, scegliendo come luogo d’incontro l’Hotel Ile-de-France di Parigi.
Poeti e letterati appartenenti a questo club diedero origine ad un’ampia produzione letteraria sugli effetti dell’assunzione di hashish: tra essi citiamo Theophile Gautier, autore de “Il Club dei mangiatori di hashish” (1846) e Charles Baudelaire con il saggio “Paradisi artificiali” (1860).

Pur non essendoci in Italia testimonianze di utilizzo diffuso di hashish, esiste una pagina di storia nazionale che vale la pena raccontare: si tratta delle prime sperimentazioni sull’utilizzo della canapa indiana a scopo medicinale, condotte da figure di spicco della classe medica di quel tempo.
Il primo riferimento risale all’anno 1847 e si colloca nell’area geografica del milanese: Milano fu, a quanto pare, la culla delle prime “esperienze cannabiniche” – come le definisce Samorini – da parte di alcuni medici che, venuti a conoscenza degli effetti della pianta, decisero di indagarne le potenzialità terapeutiche, sperimentandola prima su se stessi e poi sui propri pazienti.

È opportuno ricordare che all’epoca non esisteva il concetto di sperimentazione come lo conosciamo oggi, con procedure regolate da rigorosi protocolli che si traducono in anni di test e che indagano sia gli aspetti terapeutici che quelli legati alla sicurezza a breve e lungo termine. In un’epoca in cui si fronteggiavano ancora molte malattie senza cura, il meglio che si potesse fare era mettere a disposizione tutta la propria conoscenza e, sì, in qualche caso anche la propria persona, per trovare nuove cure efficaci e soprattutto accessibili a tutti. Una delle grandi preoccupazioni dei medici dell’epoca, infatti, era proprio quella relativa al costo dei medicinali e alla necessità che tutti vi potessero accedere. A tal proposito, scriveva così un farmacista, il dottor Pietro Brugo, operante a Romagnano, in provincia di Novara, nella seconda metà dell’ottocento: “la scienza deve essere un aiuto alla miseria e non un mezzo per fare fortuna”.

Per inciso, il dottor Brugo fu il primo a produrre nella propria farmacia un olio a base di cannabis sativa da usarsi “contro l’indurimento delle glandule, ingorghi lattei, dolori articolai, gotta”. Nel 1864 egli pubblicò la ricetta sugli Annali di chimica applicati alla medicina (ACAM), rivista edita a Milano, riportando queste parole:

“pare che i preparati della canapa sativa vadano prendendo un posto non indifferente nella terapia. I buoni risultati ottenuti dall’uso di questo farmaco, sì comune fra noi, mi indussero a rendere di pubblica ragione il metodo da me seguito per preparare in quantità l’olio di canapa, da surrogarsi per la sua attività e modico prezzo, a quello ottenuto dai semi di detta pianta (…). L’olio così preparato lo trovai d’un effetto marcatissimo, non solo negli indurimenti delle glandule, e negli ingorghi lattei, ma anche nei dolori articolari acuti qualunque sia la loro causa, e perfino nella gotta, nel qual caso se ne toglie il male, mitiga di gran lunga l’acutezza del dolore.”

Secondo numerose testimonianze, fu durante la campagna di Napoleone in Egitto, nel 1798, che avvenne il primo contatto dell’epoca moderna tra la canapa indiana e l’Europa: in Egitto e nel resto dell’Africa questa pianta era conosciuta e utilizzata da secoli – sia a scopi rituali e religiosi che terapeutici, mentre in Europa, a parte qualche riferimento isolato in epoca Medievale (riguardante per lo più le farmacie dei monasteri), pare se ne fosse dimenticato l’uso dai tempi dei Greci e dei Romani.
Come riporta Giorgio Samorini nel suo libro “L’erba di Carlo Erba”, fu grazie al “doppio binario” dell’ambiente medico e di quello intellettuale (artistico e letterario) che la conoscenza e l’utilizzo della canapa indiana – e del suo derivato ad azione stupefacente, l’hashish – si diffuse nel XIX secolo nei diversi paesi europei (Francia e Inghilterra in primis, seguiti da Spagna, Portogallo, Olanda e Germania).

Dal punto di vista letterario, fu la Francia a fare da traino con i suoi “poeti maledetti”, che avevano dato vita al cosiddetto club des Haschischins, scegliendo come luogo d’incontro l’Hotel Ile-de-France di Parigi.
Poeti e letterati appartenenti a questo club diedero origine ad un’ampia produzione letteraria sugli effetti dell’assunzione di hashish: tra essi citiamo Theophile Gautier, autore de “Il Club dei mangiatori di hashish” (1846) e Charles Baudelaire con il saggio “Paradisi artificiali” (1860).

Pur non essendoci in Italia testimonianze di utilizzo diffuso di hashish, esiste una pagina di storia nazionale che vale la pena raccontare: si tratta delle prime sperimentazioni sull’utilizzo della canapa indiana a scopo medicinale, condotte da figure di spicco della classe medica di quel tempo.
Il primo riferimento risale all’anno 1847 e si colloca nell’area geografica del milanese: Milano fu, a quanto pare, la culla delle prime “esperienze cannabiniche” – come le definisce Samorini – da parte di alcuni medici che, venuti a conoscenza degli effetti della pianta, decisero di indagarne le potenzialità terapeutiche, sperimentandola prima su se stessi e poi sui propri pazienti.

È opportuno ricordare che all’epoca non esisteva il concetto di sperimentazione come lo conosciamo oggi, con procedure regolate da rigorosi protocolli che si traducono in anni di test e che indagano sia gli aspetti terapeutici che quelli legati alla sicurezza a breve e lungo termine. In un’epoca in cui si fronteggiavano ancora molte malattie senza cura, il meglio che si potesse fare era mettere a disposizione tutta la propria conoscenza e, sì, in qualche caso anche la propria persona, per trovare nuove cure efficaci e soprattutto accessibili a tutti. Una delle grandi preoccupazioni dei medici dell’epoca, infatti, era proprio quella relativa al costo dei medicinali e alla necessità che tutti vi potessero accedere. A tal proposito, scriveva così un farmacista, il dottor Pietro Brugo, operante a Romagnano, in provincia di Novara, nella seconda metà dell’ottocento: “la scienza deve essere un aiuto alla miseria e non un mezzo per fare fortuna”.

Per inciso, il dottor Brugo fu il primo a produrre nella propria farmacia un olio a base di cannabis sativa da usarsi “contro l’indurimento delle glandule, ingorghi lattei, dolori articolai, gotta”. Nel 1864 egli pubblicò la ricetta sugli Annali di chimica applicati alla medicina (ACAM), rivista edita a Milano, riportando queste parole:

“pare che i preparati della canapa sativa vadano prendendo un posto non indifferente nella terapia. I buoni risultati ottenuti dall’uso di questo farmaco, sì comune fra noi, mi indussero a rendere di pubblica ragione il metodo da me seguito per preparare in quantità l’olio di canapa, da surrogarsi per la sua attività e modico prezzo, a quello ottenuto dai semi di detta pianta (…). L’olio così preparato lo trovai d’un effetto marcatissimo, non solo negli indurimenti delle glandule, e negli ingorghi lattei, ma anche nei dolori articolari acuti qualunque sia la loro causa, e perfino nella gotta, nel qual caso se ne toglie il male, mitiga di gran lunga l’acutezza del dolore.”

Valieri allestì numerosi preparati galenici a base di cannabis (acqua distillata, olio essenziale, tinture alcooliche, estratti, sciroppi, infusi e altro ancora) da somministrare ai propri pazienti per il trattamento di svariate patologie, da quelle respiratorie a quelle nervose.
Come riportato nel testo di Cesco Ciapanna, “Marijuana e altre storie”, Valieri ebbe il merito di intuire le potenzialità della via inalatoria, in alternativa a quella orale e parenterale, per l’assunzione dei medicamenti – ivi compresa la cannabis. Egli, grande estimatore del “popolo milanese, serio e laborioso”, auspicava che qualche azienda dell’area di Milano potesse intraprendere la produzione su larga scala di medicinali a base di canapa nostrana, una pianta che egli definiva “piena di promesse”, facile da ottenere, non adulterata e meno costosa rispetto a quella di importazione indiana.
Bisogna attendere ancora qualche anno (1925-1929) perché gli studi condotti dal botanico Biagio Longo – direttore dell’Orto Botanico di Pavia – sulla canapa sativa dimostrassero che essa apparteneva a una specie distinta rispetto alla cannabis indica e che la prima si dimostrava pressoché priva di effetti sulla mente.

L’auspicio di Valieri si era comunque concretizzato nell’opera della farmacia di Carlo Erba, che dal 1849 fino agli inizi del ‘900 continuò a produrre e commercializzare preparati farmaceutici a base di cannabis: uno di questi era il Micranol, farmaco a base di tannato di cannabina (ottenuta dalle estremità fiorite della pianta), indicato per le nevralgie semplici, facciali, occipitali, brachiali e per le cefalee.

Il primo stop in Italia alla vendita di cannabis si ebbe nel 1923, a seguito della legge n.396 firmata da Benito Mussolini e Aldo Oviglio e successivamente approvata con Decreto Regio da Vittorio Emanuele III, “Provvedimenti legislativi per la repressione dell’abusivo commercio di sostanze velenose ad azione stupefacente”: tale legge vietava l’importazione, il commercio e l’utilizzo di una serie di sostanze, tra le quali compariva anche la canapa indiana (nell’elenco allegato si parla di “Cannabis sativa L. var. Indica” e di “Estratto di canape indiana idroalcolico”).

Fino al dopoguerra, tuttavia, per ragioni dichiaratamente autarchiche, la coltivazione di canapa sativa – e l’industria tessile ad essa collegata – rimase in auge nel nostro Paese: “la Canapa” diceva Mussolini “è destinata ad emanciparci quanto più possibile dal gravoso tributo che abbiamo ancora verso l’estero nel settore delle fibre tessili”. Ancora negli anni Quaranta del secolo scorso l’Italia figurava come secondo produttore di canapa sativa livello mondiale.

A partire dalla fine degli anni ‘50 del Novecento, tuttavia, la coltivazione di canapa sativa nel nostro Paese iniziò un progressivo e inesorabile declino: alcune fonti riportano addirittura la firma di clausole segrete tra Italia e alleati, che pare includessero anche l’interruzione della coltivazione di tale pianta, con lo scopo ufficiale di impedire che la gente la utilizzasse come droga.

Che fosse per allargare la politica repressiva già in atto negli Stati Uniti, per timore che le fibre di canapa dell’affermata industria tessile italiana impedissero la diffusione delle nuove fibre sintetiche o per la confusione generata dalla scarsa conoscenza e capacità differenziazione sulle diverse specie della pianta, sta di fatto che la cattiva fama disegnata intorno alla cannabis ha generato una serie di conseguenze con cui ancora oggi siamo costretti a confrontarci.

La politica via via sempre più repressiva e indiscriminata ha di fatto distrutto un settore fiorente dell’industria Italiana, ha ostacolato (quando non addirittura interrotto) il progredire delle conoscenze scientifiche sulle possibili applicazioni terapeutiche dei derivati della canapa e – a dispetto di quello che poteva rappresentare il nobile motivo guida delle azioni intraprese – non pare aver sortito effetto né sull’abuso né sul commercio di sostanze stupefacenti.
Con buona pace del sogno di Valieri e degli intraprendenti medici milanesi.

BIBLIOGRAFIA

⦁ G. Samorini, L’erba di Carlo Erba. Per una storia della canapa indiana in Italia (1845-1948). Ed. Nautilus, 1996.

⦁ C. Ciapanna, Marijuana e altre storie. Ed. Ciapanna,1979.

⦁ Preparazione ed uso dell’olio di canapa sativa di Brugo farmacista a Romagnano.
Annali di Chimica Applicata alla Medicina, 1864, vol. 39 (3°s.), pp. 249-250

⦁ Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia, n.288, 8 dicembre 1923

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